domenica 24 ottobre 2010

La grande freccia nera del cartellone mi obbliga ad uscire, ad abbandonare il lungo confortevole nastro d'asfalto della tangenziale per un più misero stradone male asfaltato. Ai margini della strada le puttane mi osservano, coi loro vestiti succinti e scollati, coi loro corpi dolci e martoriate, così simili alle ragazze che guardo ballare in discoteca ma più sfortunate. Guardatevi, dolci donne in attesa di un marito depresso; aprite mie muse, le vostre giacche da poco, i vostri jeans attillati e quei top che qualche mano callosa e cresciuta toglierà per qualche minuto per qualche euro. Guardate quest'uomo distrutto e componete liriche e canti; o Veneri compatitemi e piangete per me, e aspettate i vostri clienti, e ripetete loro il solito prezzo, e mostrate loro un pallido seno, invitateli, e fateli vostri.
Forse un giorno ripasserò, ma spero sarà assai tardi.
Non so come si senta un cavaliere che smonti da cavallo, o un soldato che perda la guerra, o un ragazzino deriso dai compagni, o una donna offesa dalle amiche. Ma della mia aria spocchiosa e tronfia non resta più niente; un giorno forse farai una festa e poi sparirai per sempre, e io piangerò per due giorni, e per me e molto strano, perché di solito non piango mai, e non temo nessuno, ma più di tutto il male che il mondo può farmi ho un'innocente paura di perderti.

lunedì 7 giugno 2010

Forse dovrei riprendere la buona abitudine di mettere i titoli ai post.

Maledetta donna, cosa vuoi da me.
Quando ho comprato questo grande terrazzo, con queste grandi tende e questa siepe, che da tanta parte il guardo esclude, non l'ho fatto per le serate come questa, in cui mi siedo con del vino in mano a guardare il cielo cattivo e senza stelle.
Non l'ho fatto per serate come questa, mentre sento da lontano dei ragazzi che improvvisano un concerto. Non l'ho fatto per vedere da quassù le ragazze che ballano attorno al fuoco con le loro gonne da gitane, con i loro capelli lunghi, e gli orecchini e il vino da due soldi. Non l'ho fatto per questo rumore di batteria che arriva da lontano, scatenato e quieto, e così lontano. Neanche l'ho comprato per quelle cene che ogni tanto organizzo, lo sai che cucino così male, e che ho preso l'abitudine di comprare tutto o di far venire qualcuno a cucinare.
Non l'ho fatto per la sigaretta che tengo in mano adesso e che è una luce qualsiasi di questa città che lotta contro il cielo mai sopito.
Quando ho comprato questa terrazza, dolce donna, l'ho fatto solo perché ti ci avrei voluta portare. L'ho fatto solo perché saremmo stati soli e ormai le luci non funzionano più. Nel buio avresti dovuto tenermi la mano. Nel buio avresti sentito anche tu questa canzone lontana e avresti ballato con me. Poi, quasi con sorpresa, ci saremmo baciati. Vuoi sapere a che serve questo terrazzo? Questo terrazzo serve a farci stare insieme. Serve a farci ballare e a farti ridere quando ti pesto i piedi. Serve a farti barcollare quando bevi, serve a me quando ti toccherò il sedere. Serve a noi quando ci avvinghieremo su questa panchina, serve a far scricchiolare queste sedie vecchie e serve a farti correre attorno a queste vele e a questi alberi. Serve a farmi avere paura in mezzo a tutte queste corde dove puoi inciampare. Quando sono accanto a te ho come una certa paura, come se tutto sia fragile e tu, toccandoti, potessi romperti.
Questo terrazzo sarebbe servito ad essere felici quando fa caldo, a stare insieme, e a guardarlo con desiderio e nostalgia d'inverno, quando è ghiacciato e bagnato e freddo, e tu comunque puoi fumare in cucina, se vuoi. Questo terrazzo sarebbe stato solo l'ennesimo palco della nostra felicità. E invece me ne sto qui da solo, col bicchiere e la sigaretta, a guardare ancora una volta questo cielo senza stelle, con i gomiti sulla balaustra, e ti penso.

domenica 30 maggio 2010

Abbasso le tende del mio terrazzo,\ passo e tengo un bicchiere di caffè.\ Il fumo esce fragrante e sale,\ impatta in rivoli sul tessuto delle tende che lo assorbe\ e un po' prosegue.\ Come il sipario del teatro alzo\  lo sguardo su questi miei palazzi,\  sui fuochi d'artificio,\ sul cielo della notte in questa città che non è mai nero\ per quanto si sforzi\ anche alle 4 del mattino una luce fioca brilla sempre, e non ci sono mai le stelle\ mentre adesso che ti penso ritornano\ i tuoi occhi scuri\ profondi come la paura che ho di aprire bocca in tua presenza\ e di dirti ciò che penso\ le mie labbra sempre secche e le parole che non trovo\ e intanto, questi fuochi d'artificio, e questi miei palazzi\ sono come Kutuzov dopo la battaglia\ prima o poi vincerò io
Ci sono Uomini che sono regolari.
Gente che sa esattamente quello che deve fare.
Ci sono persone che riescono a programmare la propria vita e le proprie cose, ad avere piani per tutto, a gestire con esattezza sentimenti e sensazioni, a scrivere meravigliosi calendari di carta per scandire ogni lavoro. Ci sono persone che sanno quello che fanno, che compiono quello che vogliono e, se non hanno qualità, sopperiscono con la forza.
Io, di parte mia, non ho mai avuto questo valore, e la mia sregolatezza non è certo un vanto da bohemienne, ma un limite pesante, e un cruccio di cui chiederò conto a Dio o a chi per lui, un giorno. Non so quale peccato ho compiuto per meritarmelo, ma la mia vita è un grande saliscendi, fatto di corse repentine e di stasi preoccupanti, di giorni che cominciano alle 10 senza un senso e di levate repentine. Ho provato di tutto e non funziona, e mi vergogno, mi vergogno in maniera spaventosa delle mie mancanze, e del tempo sprecato, e dei miei difetti, e dell'impossibilità di compiere le cose. Come un calciatore giovanotto, cui il destino ha dato un piede buono e cui la notte è sempre troppo corta, passo da brillanti affermazioni a cadute spaventose; e su tutto questo, mi percuote la paura di sbagliare, di non incidere, e di passare. Io sono Evaristo Beccalossi, e come la mezzapunta dell'Inter faccio e disfo, mi esalto e cado, e tutto sommato non sono che nessuno.
Tra due giorni si decide la mia vita e tu non ci sei, Giulia. Io mi sento sempre solo e penso, mia cara, che su questo letto non ho mai voluto sesso, anche se ripenso ai giorni lieti in cui eri mia.
Quello che volevo era il tuo affetto.

martedì 11 maggio 2010

Ho comprato un letto così grande, mi sembrano soldi buttati.

lunedì 3 maggio 2010

sei molto bella, amore,
sei molto triste, amore.

giovedì 22 aprile 2010

Una volta delle mie amiche mi hanno chiesto se mi sentissi solo, la mattina, svegliandomi in un grande letto a due piazze.
E' stato allora che ho mentito.
Ho mentito a me stesso e a loro. No, signorine, affatto, non sento affatto la solitudine, al mattino. E' semplicemente la mia vita, signorine. E' solo un letto grande.
Quante palle che vi ho detto, signorine. La verità è che mi uccide avere due cuscini alla propria sinistra, al posto di una persona. Il fodero di cotone fa delle forme strane che nella luce che trafila dalle persiane diventano un corpo sinuoso dalla svelta pelle ambrata, dai lisci capelli castani. Bisogna essere sognatori o disperati per accarezzare un cuscino, ed io lo sono entrambi, e poi mento, mento spudoratamente a tutti, comincio a sorridere e rido di un riso ilare, e la gente sembra amarmi, e la gente mi apprezza.
Che diritto hanno loro di sapere la verità. Che diritto hanno loro di provare la vicinanza, la pietà, l'empatia, il dolore. Che diritto hanno loro di giudicarmi per quello che sono e sto diventando. Nessuno.
Ed è per questo che non sapranno nulla. Che cosa vogliono sapere, la mattina mi sveglio fresco, bellissimo, e sorrido davanti alla spada di una nuova giornata che incombe.

mercoledì 7 aprile 2010

una felpa.

Oggi ho comprato una felpa. 
E' una bella felpa bianca, con una scritta navy cucita sopra. E' di un tessuto soffice e delicato, dolce al tatto e morbido morbido. Mi sembra così stretta che faccio fatica a credere che entri a una persona, che le stia addosso e che la copra, e ti tenga il caldo quando tira vento o quando c'è umido d'estate, in riva al male. Ho comprato una felpa bianca con un cappuccio, un cappuccio per coprire i suoi capelli che vorrei tenere tra le mani, sull'isola di Procida, in una sera qualsiasi d'estate, nel lato meno esposto del paese, appoggiati al muro diroccato che separa la stradina dalla sabbia del mare, colorato dai fichi e dalle lanterne, e dai ragazzini che giocano. Ho comprato la felpa che vorrei stringere mentre ti bacio e stiamo insieme. 
Che cos'è una felpa? Una felpa è un filato di tessuto che qualche povera donna in un Paese del sud del mondo ha operato e messo insieme, che qualche ispirato occidentale ha messo in vendita per il decuplo del prezzo, che qualche pazzo occidentale ha acquistato per regalo o vanteria. Ma la mia felpa è un sorriso. La mia felpa non è di tessuto. La mia felpa è il sorriso che farà quando avrò deciso di portargliela, con un grosso fiocco sopra, ed il biglietto:
"Ho scritto le migliori parole del mondo, ma tu non daresti loro il giusto peso. Aspetterò finchè tu possa fidarti di me e capire ciò che dico.".
Per comprare la mia felpa ci sono volute tre banconote stampate da un Paese, 6mila chilometri di volo, due taxi, un litigio col tassista, una strada sbagliata, un'informazione alla commessa, una rassicurazione di una tipa che passava di là e alla quale ho chiesto aiuto, una busta di carta e dei sorrisi di di circostanza di chi me l'ha venduta. A che serve sbracciarsi, distruggersi e stancarsi, girare il mondo e ritornare se tutto questo non ha senso? Che motivo ho a chiamarti se sei all'antipode e io all'antipode. Se sono in aereo e tu a letto. Se sono solo e tu no. 
A che serve presentarsi con un regalo se tutto questo mi pare inutile. A cosa occorre, se già so che non sarai con me, un giorno. 

stretta è la via

C'è un posto vicino casa tua che si chiama via Ajaccio. Forse neanche lo sai che si chiama così, perchè è un luogo perfettamente anonimo e dimenticabile. Lungamente trascino i miei passi sconsolati su questa via, schivando le rare vetrine, il ristorante, e i cancelli, i portoni. E' in questo luogo, un luogo tranquillo, fatto di case eleganti e di una naturale inclinazione al silenzio e alla riservatezza, che io vorrei abitare. Vorrei che fossi qui perché potrei venire a trovarti a piedi. Mi presenterei con una giacca sgualcita e qualcosa in mano, un fiore stupido o qualcosa da mangiare. D'inverno busserei alla tua porta, e una volta aperto, ti mostrerei una barretta di cioccolato e potrei dirti "ciao, ho trovato questa per strada, mentre venivo qui".
Tu mi guarderesti con un riso indulgente e, datomi del cretino, mi lasceresti entrare.
Vorrei abitare a via Ajaccio per farmi una mia vita di piccole cose, una vita nella quale puoi esserci tu e sembrare meno distante. Ti aiuterei a portare le casse d'acqua quando fai la spesa. Insieme ce ne andremmo a braccetto tra questi palazzi, questi monumenti di colore e anonimato, questi palazzetti eleganti e borghesi, belli e così scomodi da abitare, con le loro mura spesse e con i loro conti della manutenzione sempre così elevati. In primavera potresti uscire per la prima volta con le spalle scoperte, e io ti darei sempre la mia maglia al primo fresco. Faremmo discorsi banali sul tempo che cambia e sul tempo che passa, e ogni tanto ne diremmo qualcuna di politica, o parleremmo di libri. Berremo di sicuro tanto vino, anche perchè il bianco ti piace molto.
Avrei un balconcino che dà sul cortile interno. La sera ci appoggeremmo alla balaustra mentre fumi una sigaretta, e cingerei la tua vita stretta e veloce, pensando alla gioia e al piacere e alla passione e a tutte le altre cose quando ti bacio una guancia. Hai il vezzo del rossetto, poco prima di avvicinarti. E' di un colore neutro che sta così bene con la tua pelle.
Tutto questo penso spesso, mentre passo per questa via ora cupa e dimessa, giochicchiando con le chiavi per cercare la mia macchina. Un'altra sera volge al termine e, mestamente, mi allontano da questi luoghi. L'autoradio mi sussurra qualcosa, mentre imbocco l'autostrada. Se solo si trattasse di una casa, penso che lavorerei di più per affittarne una. Credo che la situazione sia in realtà leggermente più complicata.

sabato 20 marzo 2010

Morellino di Scansano.

Tu dici che lo faccio con tutte, che sono pieno di complimenti e cerimonie. Ma allora come si fa dirti qualcosa che non sia mai stato detto? Dovrò inventare parole nuove? E scriverle sui muri, allora, come i ragazzini?
E' vero che lo faccio con tutte, ma, con te, è diverso. E non conosco nessuna maniera per dimostrartelo; però, se vuoi, fidati.

giovedì 4 febbraio 2010

Tutta Colpa del Panda.

Lungamente e per tante genti, per mari e per strade ho corso, e sono cresciuto camminando, e scattando istantanee e ridendo. Ho avuto amici inprovvisati coi quali ho riso e legami irrescindibili che porterò con me per sempre. ho visto porti, aeroporti, autostrade, viuzze, e sono sempre andato per il mero gusto di andare, mi sono trovato nei regionali più luridi e in aereo in business class.
Ho cambiato due passaporti e tagliato i capelli.

mercoledì 3 febbraio 2010

...

"Fa' attenzione, non vuoi mica un bambino?"

lunedì 1 febbraio 2010

+1

Lei diceva tutte queste cose sul Ponte Milvio, strizzata in un jeans e in una polo che avevamo comprato insieme, e io mi limitavo ad ascoltare, a sentire ogni sua singola parola sibilare nel vento, perdendomi nell'eco di queste, mentre il sole declinava tranquillo, placido, un altro giorno d'estate

domenica 24 gennaio 2010

uhm

C'è una sorta di bellezza nascosta, e decadente, nell'atto di precipitare nel baratro più scuro, e farlo con noncuranza, indifferenza, abbonamenti della metropolitana, routine.

sabato 23 gennaio 2010

w.i.p.

Questo non lo vuoi mai ricordare, perché sono stato molto più furbo di te.
Anche se poi lo so che voi donne non fate altro che cercare pretesti, per scaricarvi un po' la coscienza. Fatto sta, che il piazzale con la vista sul mare non te l'aspettavi.

*** io e te abbracciati, nel silenzio del mare più nero e profondo, nel cielo nero e limpido trapuntato di stelle argentine, e l'universo intero che si sposta a destra e sinistra, mentre balliamo un po', e poi ancora un momento, e un cane che ci passa vicino, le portiere della macchina aperta e una canzone che si diffonde mentre danziamo, e non c'è assolutamente niente che può scalfirci, assolutamente nulla che può farmi male, mentre mi baci, mentre ti bacio, e il mondo e le bestie e tutte le creature si mettono in ginocchio attorno a noi. Gesù, stavolta mi sono proprio innamorato.

mercoledì 20 gennaio 2010

Arms



I taxi della Ford sono gialli e rifiniti molto male, dietro è un tripudio di finta pelle e plasticacce incollate, e noi avevamo le nostre buste nere di ralph lauren, e lei un cappotto nero, ed era stesa su di me. A sinistra le sbucava il filo nero di raso, sotto al maglione e prima dei jeans, una regione che neanche Amundsen ha desiderato così tanto, e intanto il traffico non scorreva, e il tassametro andava, e non me ne fregava assolutamente niente. Lì il tempo, che di solito corre troppo veloce, si è veramente fermato. Lì, con una maturità e un'intelligenza degna di Temistocle, capii che non dovevo baciarla, perchè sarebbe rimasto tutto a New York, e noi non saremmo rimasti lì più di 3 ore.

Tipi.

"Ci vediamo domani. Baci."
Stefanietta è proprio bella. E' piccola e sofisticata, e bella come una bomboniera. E' dolce e moderna e viziata, e stesa sul letto sta divinamente, una porcellana, i suoi grandi seni che strabordano dalle maglie sempre un poco strette, sensuale, le labbra piccole e vogliose, gli occhi profondi e quella specie di voglia che ti comunica sempre. Ciao ciao.
Mi sono inventato una strada assurda per accompagnare prima lei. Su questo grande vialone dai lavori perennemente in corso si avvicendano i lampioni, la luce ambrata che si avvicina e scappa sulla mia macchinetta bianca e anonima, le buche che mi prendono e mi scansano, i marciapiedi, e qualcuno che cammina, anche se è così tardi, anche se non è ora.
Devo accompagnare ancora un'altra persona a casa. Ma mi tiene la mano.

"Santo cielo, perchè porti la cravatta?"

Certe mattine proprio non va.
Certe mattine il sole ti entra negli occhi dalla finestra, e ti svegli. Guardi l'orologio e dici: troppo presto.
Poi riapri gli occhi e guardi l'orologio. Troppo tardi.
Camicia aperta due bottoni su, due bottoni giù. Cade l'asciugamano.
Prendo l'asciugamano, il dentifricio macchia l'ultima camicia pulita. Bestemmia.
Che faccia indosso stamattina? La mia preferita: faccia malconcia e sbiadita, con due giorni di barba e delle spaventose occhiaie. Io odio le trasferte. Io odio le stanze tutte uguali degli alberghi, le mezze pensioni, la cortesia. Odio tutto questo e non riesco a conviverci; detesto fare un milione di chilometri per rinchiudermi dentro un palazzo identico a quello dove vado tutti i giorni. Mi fa sentire idiota. E poi sono nervoso. E poi la gente mi odia.
Il problema è che a fare queste cose mi sento costretto; un soldatino di stagno, tra tanti soldatini di stagno. Un perfetto imbecille della società contemporanea che si mette ad ascoltare idiozie dette da idioti da un podio del centro congressi.
Pantaloni vecchi, bottone chiuso, zip aperta ("Mi scusi, signore, credo dovrebbe controllare i suoi pantaloni"). Un brutto nodo alla cravatta , la giacca spiegazzata sulla schiena.
Profumo profumo profumo.
L'ultima cosa che ho pensato uscendo dalla nuvola di Allure è stata: "Tanto che mi importa? non conosco nessuno lì sotto"

lunedì 18 gennaio 2010

hasta luego.

Good times for a change.
Meno male che c'è Morrissey.
Quanto caffè che sto bevendo; quante pause sto facendo. Cose che si trovano nell'ordine sulla scrivania:
- bottiglietta di plastica vuota
- peluche ottenuto in sinallagma di una cosa enormemente più costosa (in euro)
- calze di lana bucate sul tallone destro (sporche)
- Storia della letteratura italiana in antichissima e consunta edizione del 1929.
- ricordi e pensieri, e la mia coscienza sporca.

Lunga la barba, lunghissime le pause, snervanti le attese. Una coltre di silenzio e di polvere sta coprendo tutto fittissima. L'appartamento a fianco evangelizza camera mia con musica dozzinale a volume spaventoso, e non ho voglia di bussare al muro, e poi alla porta, e poi scusi, sa, sono impegnato, sto scrivendo una cosa importante, poi ho delle cose a breve indi per cui..

Un poster di Santo Domingo mi guarda con fare indulgente, dall'alto. Certo che potrei venire, lo so che potrei tornare. Una casetta, il mare, la barriera e le immersioni, svegliarsi presto, l'alba, la spiagga, il falò. Certo che vorrei tornare, anzi, ci stavo pure pensando.
Poi le cose non sono andate come avrebbero dovuto.

(...)

Ogni mattina imbocco nel serpente tetro e assonnato della metropolitana. La gente non sorride, fredda. Tutto mi sembra uguale, grigio e azzimato, nei volti segaligni degli zingari che mi chiedono l'elemosina, nelle facce stanche dei passeggeri, nelle centinaia di cuffiette attaccate ai loro orecchi, nei colori scuri degli ombretti e delle occhiaie. Che cos'è questa gente, se non comparse, fondali, caratteristi di qualche vita migliore. Che cosa sono questi, se non i figuranti delle storie di pochi eletti che hanno avuto tutto.
Io sono stato uno dei migliori, per un po'. Sono stato indifferente e disincantato di fronte al mondo; e questi non ha potuto fare altro che stendersi ai miei piedi. Ho avuto il coraggio di fare astensione davanti a quanto più invitate e pieno ci fosse; e desidero e lussuria han dovuto rincorrermi. Ho finto disinteresse verso chi aveva tutti attorno; e costei ha rotto il cerchio di lacchè che aveva attorno, e mi è crollata tra le braccia.
Per qualche attimo ho potuto assaporare la perfezione memorabile e piena, per qualche istante sono stato re, principe, barone e duca; per qualche momento ho guardato queste vite miserabili e vane, questo incedere di posti fissi e di mogli obese, di figli problematici e ragazzine bulimiche, di adolescenti idioti e di vecchi rincoglioniti, di pendolari stravolti di questa metropolitana; ecco, ho detto, guardatemi con ammirazione e con vanto; poiché io sono il migliore di tutti, io sono più in alto di tutti. Ho tirato in fuori il petto, e sono stato alto e nobile, e ho avuto il collo ornato d'ermellino e di porpora rossa; e poi d'improvviso tutto se n'è andato, è fatto buio, e sono rimasto solo, a terra, sul selciato cosparso dei cocci di quello che per me è stato.

venerdì 8 gennaio 2010

Paradise, lost

Una serratura (s.f.) è un congegno atto a tenere chiuso, assicurato, un vano, una porta, un locale, un luogo. Generalmente una serratura è formata da un vano cilindrico, all'interno del quale molle di differenti altezze tengono sospesi dei dentini. L'inserimento di una chiave opportuna ne determina lo sblocco, e la conseguente apertura del serramento.

L'effrazione di una serratura è possibile in due possibili modi o maniere. La prima consiste nell'impiego di una chiave a cifrature profonde, che consente di trasmettere il movimento dall'esterno all'interno della camera, sollevando i cilindri; la seconda è quella di forzare la serratura con un cacciavite, un martello o altro elemento in grado di portare a termine l'effrazione.

I ladri che mi hanno sfondato la macchina non sono andati tanto per il sottile; da quando mi hanno vandalizzato la macchina, per chiudersi la serratura ha richiesto più tempo e più fatica.


L'ultima volta che sono venuto qui le serrature erano ancora a posto. Ho posteggiato esattamente nello stesso modo e tra le stesse strisce blu. L'aria gelida sibila con perfidia in cima alla collina, che si apre sul grande campo, sul prato, sul declivio; poiché è notte non pagherò nessun tagliando. Dall'altra parte della strada una statua di Mazzini mi guarda accigliata, mentre infilo le mani screpolate nelle tasche comode e grandi di questa mia giacchetta. Condivido la sua preoccupazione.


A margine della piazzetta c'è una grossa arteria che scollina proprio davanti al patriota; la strada a tre corsie ha cento efelidi di macchine che mi passano davanti. Automobili l'altra volta non ce n'erano; ma era molto più tardi. Aspetto indifferente che siano passati tutti; il momento giusto sembra arrivare, sta arrivando, poi dall'incrocio sbuca una macchina che sale in un sommo sforzo di velocità. Sfruttando un paio di semafori e di coincidenze riesco a passare. La gente non su questa strada non si ferma quasi mai; e certo che farsi investire qui sarebbe davvero di cattivo gusto.

Lei non approverebbe.


(sospiro)


Il vento gelido e feroce che mi prende a schiaffi una volta è stato una brezza tiepida e delicata, un caldo alito di giugno. Io ti tenevo il cotone leggero del coprispalle, mentre tu ancheggiavi sinuosa verso questa panchina, e com'eri bella. Se avessi avessi avuto tutte le parole del mondo sarei rimasto comunque zitto; perchè di alcune cose non si può parlare; poichè di tutto quello di cui non si può parlare, bisogna stare zitti. Il buio atroce che adesso mi preoccupa è stato un'intimità delicata interrotta solo dallo sguardo indulgente della luna. Un gruppo di ragazzi ai piedi della collina cantava Battisti; un'idea così smielata non mi sarebbe venuta in testa neanche pagandoli.


Dov'è finita la ragazza che abbracciavo, ora che mi tengo stretto per conservare un po' di calore? Le mani foderate dai guanti erano libere di toccarti eccitate; i brividi di emozione che mi prendevano ora sono il tormento e lo scuotimento di questo freddo di dicembre. Eppure più della sciarpa hanno potuto i tuoi baci sul collo


Su questa panca ci siamo seduti, e su questo lastrone di marmo ci siamo toccati avidamente; mi hai stretto forte con le tue braccia sottili e ti sei messa a pensare; io non ho potuto fare altro che cingerti le spalle e sospirare un po'. Poi ti ho accarezzata un po' con la testa, come avrebbe fatto un animale affettuoso, e poi ti ho tenuta stretta, sentendoti pensare; perchè ogni volta che pensi ho paura; e ogni volta che ti bacio, ho paura che sia l'ultima.

Anticipazione \ daydreaming

E fu così che si abbassò la zip del pigiama.
David Bowie, Marx e pure Maradona, tutti loro sarebbero stati orgogliosi di me.

giovedì 7 gennaio 2010

Il centro esatto dell'Universo.

Casa mia ha un letto grande e spazioso, con una grande trapunta color panna, e che prende la più gran parte della stanza e l'occhio dell'osservatore perché risulta piazzato proprio al centro.
Il letto è posticcio; fa parte delle varie cose che ho assemblato, o comprato, o pulito, o spostato quando sono venuto qui a settembre. Prima c'era un grande spazio vuoto che ho riempito con mobilacci dell' Ikea, di cui uno o due hanno persino una qualche pretesa di design. La mia robetta pagata pochi spiccioli fa a pugni col resto della casa che è bella e nuova, ma fa nulla. Ho comprato un tavolo enorme, profondo quasi un metro, e ci ho messo su una bella lampada da ingegnere, col suo scheletro di metallo e la sua lampadina a incandescenza. Seppure enorme, il tavolo è sempre zeppo delle mie cartacce, e mi sembra sempre troppo piccolo.
Forse la ricchezza è avere un tavolo gigantesco sul quale appoggiare tutte le proprie cose.
Tavolo e letto sono il grande campo di battaglia della vita; ci passo tutte la giornata sopra. Mi siedo al tavolo, lavoro, poi mi stendo sul letto, tutto nel raggio di mezzo metro; ancora non ho capito se tutta questa modernità e praticità è meravigliosa o se sono un coglione (più probabile la seconda).
Oltre alle fragole del post precedente, che sono già finite, c'è il lungo cavo dell'alimentatore del computer, una ciotola macchiata dove avevo un po' di cibo, e il calco della mia figura, una specie di sindone nel letto ancora in ordine da stamattina. Poi ci sono i miei post-it, il quieto disordine dovuto ai troppi libri e le troppe cose, e poi una valanga di miei pensieri, che scivolano sui miei mobili, che covano nel mio letto, che si abbronzano sotto la luce artificiale di queste lampade, che si affacciano dal grande terrazzo di casa mia, e che chiedono pietà, luce, e un attimo di quiete, poichè non riesco a fare altro che pensare a lei.

Grand Finale

Mentre sciacquavo le fragole ho pensato - Beh, in realtà sembrano pulite.
Non sono un grande esperto di fragole.
Vivo da solo. Un appartamento grande e spazioso, ai margini di una città grande e spaziosa. Si sa che quando si è giovani non si può avere tutto. Una casa bella è grande, nuova, in centro. Quando si è giovani non si può mai avere tutte queste cose insieme. La mia è grande e bella, quindi come avrete capito, sono a mezz'ora di automobile e tangenziale da tutto quello che ha un significato nella mia vita: il lavoro, l'università, le persone.
Giulia.